Il tema dell’abitare si pone in continuità con quanto proposto gl’anni scorsi: la parola e il corpo, per raggiungere il loro compimento (e parafrasare fino in fondo quanto l’evangelista Giovanni ha magistralmente sintetizzato nei primi versetti del suo prologo) hanno bisogno di “prendere dimora” nella vita degli uomini, di “venire ad abitare in mezzo a noi” (Gv 1,14). È un tema che si pone in continuità anche perché, come sempre, ha la pretesa di incrociare un’altra dimensione fondamentale dell’esistenza – e quindi della Fede – quale è quella dell’abitare.
Come la vita degli uomini non può prescindere dal parlare e dal porre gesti, così non può fare a meno di ‘trovare casa’, di ‘fare casa’ su questa terra in cui Dio ci ha collocato; e fin dall’inizio, a prescindere dal risultato, pare sia stato proprio così: “venite, costruiamoci una città…” (Gen 11,4). In altre parole, per entrare in relazione con sé, con gli altri e con Dio occorrono certamente parole e gesti efficaci, ma se questi non prendono dimora, non si radicano nelle pieghe dell’esistenza umana, rischiano di essere lasciati alla mercé del tempo che passa e scivolano via come l’acqua sulla roccia. Se si vuole continuità, occorre prendere dimora, occorre abitare e far abitare.
E già qui si può cogliere una prima sostanziale questione intorno all’“abitare”: nasciamo senza aver avuto la possibilità di scegliere dove abitare e moriamo venendo ‘giudicati’ per dove e come abbiamo abitato ovvero per quello che abbiamo costruito. C’è una passività dell’abitare che non può che essere accolta e c’è un’attività dell’abitare che non può che essere agita in ogni esistenza se si vuole dire degna di essere vissuta.
Materale tratto da cregrest.it