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www.webalice.it/miragoli/IL_MIO_PENSIERO_SU....html Questo è il mio corpo dato... Relazione di Ernesto Miragoli ______________________________________________________________ Nello svolgere il tema assegnatomi, per una comune riflessione sull'amore, inteso nella sua globale, affascinante e totalizzante esperienza umana e cristiana, voglio precisare il tema della riflessione, proprio per la sua vastità ed ampiezza, non è certamente esauribile nel tempo a disposizione. Mi limiterò a suggerire delle riflessioni che mi sono sorte spontanee, quando ho cominciato a pensare qualche idea da condividere. Una premessa: chi vi parla è un prete sposato, dal cui matrimonio sono nati tre figli ed è contento, con la propria sposa, della scelta fatta. Mia moglie ed io, infatti, non ci siamo sposati perché un giorno io sono andato a sbattere contro due occhi azzurri e mi sono fatto male, ma perché insieme con mia moglie abbiamo scoperto e sofferto (dapprima nella clandestinità, poi alla luce del sole) la bellezza dell'amore, inteso come donazione reciproca, scambio di tenerezze. Amore che per noi è stato colpa felice, travaglio nascosto, generatore di forti tensioni emotive. Così è nato e così tuttora vive: il nostro essere, inteso come corporeità, spiritualità, donazione totale e profonda, al punto di dirci: «Questo è il mio corpo che è tutto tuo». 1. Ti dono il mio corpo: segno-simbolo dell'amore di Dio L'amore non è una scelta, ma un bisogno naturale dell'uomo. Anche l'egoista ama. È quindi fatale che, al momento della piena maturità, l'uomo cerchi l'amore. Nessuno dimentica la propria esperienza di scoperta, di ricerca, di sviluppo dell'amore. Essa è assolutamente personale, irrepetibile, intima, esaltante e deludente insieme, piena e vuota e poi ancora piena di un «tu»; l'amore è una realtà che ci fa giocare i migliori anni della nostra vita. I greci hanno tre sostantivi che rendono bene i momenti della vita dell'amore umano: eros, filìa, agàpe. Eros, il dio dell'amore che suscita la passione e il desiderio e lancia frecce mortali, dalle quali neppure gli dei possono scampare; è l'amore passionale, erotico appunto, I'amore del desiderio carnale. Filia, è l'amore di amicizia, l'amore che lega due persone al di là dell'esperienza erotica, l'amore che crea una sostanziale intesa, che fa camminare assieme per una lunga parte della vita. Cicerone scriveva: «Idem velle, atque idem nolle: ea demum firmo amicitia est». Agàpe, è l'amore di condivisione che è poi stato scelto dagli apostoli e dai Padri come termine più espressivo del concetto dell'amore in Cristo. Quando un uomo ed una donna si incontrano e realizzano nella comunione di vita la donazione reciproca, diventano, nell'ottica cristiana, il segno-simbolo dell'amore di Dio. Il nostro contesto culturale, riguardo al concetto di segno-simbolo in senso religioso, ha espresso una serie di interpretazioni che sono diverse, non ambigue, ma reciprocamente integrantesi. Il segno-simbolo è stato spiegato come la manifestazione di un desiderio represso (Freud); come veicolo indifferente di un significato di origine puramente sociale (Durkeim); come epifania del sacro nell'uomo (R. Otto); come espressione di nuove situazioni limite dell'uomo, riproposte in successivi contesti culturali (M. Eliade); ma tutte queste interpretazioni hanno contribuito a far considerare il segno-simbolo come un momento di piena realizzazione dell'uomo, nella sua apertura al trascendente, ove si «esprime la sostanza stessa della vita spirituale e l'esistenza umana trova il suo radicamento ed il suo equilibrio» (Ch. A. Bernard, Panorama des études symboliques, in Greg. 55, 1974, 379-392). La Bibbia conosce appena il concetto di simbolo (Os. 4,12; Sap. 2,9 e 16,6), mentre usa spesso (80 volte nell'A.T., 70 volte nel N.T.) il termine segno (in ebraico 'ot; in greco: semèion). Occorre, però, andare oltre i termini e cercare di cogliere l'aspetto più profondo: il linguaggio simbolico è profondamente connaturale alla mentalità semitica ed è una delle caratteristiche fondamentali della Sacra Scrittura: la «pedagogia dei segni» è una costante dell'azione del Dio vivente in mezzo al suo popolo. È in questo contesto della pedagogia dei segni che vorrei riflettere con voi sul segno più grande: l'Eucaristia, il dono del pane e del vino che sono segno del corpo e del sangue (cioè della totalità di una persona) di un Dio che si fa carne (ò lògos sarks eghènneto - Gv. - Prologo) e ama e muore e risorge e vuole essere riamato. Il dono della totalità di se stessi ad un altro è una caratteristica peculiare del messaggio cristiano: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la propria vita». Leggiamo Gv 21,15-17: "Quando ebbero mangiato, Gesù disse a Simon Pietro: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene tu più di costoro?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci i miei agnelli». Gli disse di nuovo: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Gli rispose: «Certo, Signore, tu lo sai che ti voglio bene». Gli disse: «Pasci le mie pecorelle». Gli disse per la terza volta: «Simone di Giovanni, mi vuoi bene?». Pietro rimase addolorato che per la terza volta gli dicesse: Mi vuoi bene? e gli disse: «Signore, tu sai tutto; tu sai che ti voglio bene»". Se prendiamo il testo greco, troviamo che il verbo «mi vuoi bene» è espresso con due verbi greci: agapào e filéio. Immaginiamo la scena: in riva al lago, dopo la risurrezione, Gesù appare agli apostoli e, dopo un frugale pasto, chiede a Pietro «agapàs me pleòn touton?» Pietro risponde «filo se»; per la seconda volta «agapàs me?» Pietro risponde « filo se»; per la terza volta Gesù chiede «fileis me?» Pietro risponde «filo se». Solo Gesù usa il verbo agapào le prime due volte. Pietro usa sempre il verbo filèo. Alla terza volta Gesù sembra adeguarsi e usa il verbo filèo. L'esegesi tradizionale commenta che qui Gesù ha voluto riabilitare Pietro dopo il triplice tradimento e conclude che in questi versetti si fonda teologicamente il primato di Pietro e dei suoi successori. Ci va benissimo. Ma poniamo l'attenzione sui due verbi: agapào e filèo. Filèo è meno forte di agapào. Filèo ha la radice di filìa: amicizia. Agapào ha la radice di agàpe: amore, amore che condivide. Gesù vuole che chi ha il compito di pascere le pecorelle ami di un amore di condivisione, di un amore totalizzante, di un amore che vada ben oltre l'amore di una forte amicizia. Conclude: pasci i miei agnelli, dove è implicito che il pastore (l'aveva detto prima) dà la vita per le pecore. Amare per Gesù significa condividere tutto, al punto di dare il proprio corpo, la propria vita. Vorrei trarre una prima conclusione: l'amore di due esseri umani, di un uomo e di una donna che si incontrano è un amore che si dona, che si fa corpo unico nell'amore fisico, che si realizza ed amplifica nella costante donazione della vita nella quotidianità, cioè è dono all'altro del proprio corpo e del proprio sangue, perché dall'unione del sangue dei due può nascere un nuovo essere, con un nuovo corpo ed un nuovo sangue, esattamente come è successo a Cristo che, donando il suo corpo ed il suo sangue ai fratelli, ha dimostrato di amarli fino in fondo e ha generato un nuovo essere, la Chiesa. Il segno-simbolo di questo amore è l'Eucaristia. 2. Ci doniamo per i fratelli Domanda: è azzardato affermare che anche nella donazione reciproca di un uomo e di una donna, che si amano condividendo anche a livello fisico la propria sessualità, intesa come espressione di un amore profondo e non solo sfogo di istinti; che si amano donandosi sessualmente, come espressione di amore totale e non solo di momento di sfogo della propria libidine (il famoso concetto di matrimonio come remedium concupiscientiae); che si amano nella fusione dei propri corpi, aperti anche a generare una vita perché fecondi come Dio li ha voluti; è azzardato affermare che anche in quel momento essi fanno Eucaristia? Non vorrei essere troppo provocatore, ma se Eucaristia significa: - Rendimento di grazie. Prendiamo Lc 22,14: Gesù si siede a tavola per consumare l'ultima cena con gli apostoli e dice: «epitzumia epetzumèsa, desiderio desideravi, ho ardentemente desiderato». Nel verbo greco c'è la radice «tzum»; essa si trova in tutti i verbi e sostantivi che significano ardere, bruciare, bramare, avere voglia. Gesù brama, ha voglia di essere con gli apostoli. L'amore brama l'amato, ha voglia dell'amato (ricordiamo il Cantico dei cantici). In questo contesto: eucaristèsas, gratias egit, rese grazie. In questo contesto fa Eucaristia. Non si bramano forse reciprocamente due amanti? Non vogliono, forse, i due amanti, essere assieme, vivere assieme? Non sono vogliosi di dimostrarsi reciprocamente quanto si amino, quanto uno sia importante per l'altro e, donandosi, di ringraziarsi reciprocamente per questo amore? - Fecondità ecclesiale. Prendiamo Gv 17,20: «Non prego solo per questi, ma anche per quelli che per la loro parola crederanno in me». Gesù sapeva che il fuoco dello Spirito avrebbe spinto i discepoli a fare proseliti, cioè a non vivere egoisticamente l'amore sperimentato, ma ad essere fecondi: il fuoco dell'amore porta a conoscere l'amato ed a farlo conoscere. L'Eucaristia fa la chiesa e continua ad alimentarla. Un uomo ed una donna che si amano rendono sempre più fecondo il proprio amore in due modalità: accrescendolo come coppia e quando da questo amore sboccia una vita. «Scenda su questi sposi la ricchezza delle tue benedizioni, perché nel dono reciproco dell'amore allietino di figli la loro famiglia e la comunità ecclesiale» (Preghiera sugli sposi: Messale romano, Messa rituale del matrimonio). - Morte per la vita. È il fulcro rivoluzionario del messaggio di Cristo: in un contesto culturale di schiavitù e di egoismo, il Verbo incarnato ha proclamato che è signore solo chi serve, che farsi schiavo è libertà, che vive appieno la vita solo chi muore. Un uomo ed una donna che vivono il proprio amore sono costretti a morire ogni giorno ai propri egoismi: a sacrificare i propri spazi per l'amato o per il frutto dell'amore che sono i figli. Un uomo ed una donna che si donano reciprocamente sanno che, morto il gesto profondo ed appagante dell'amore fisico, può nascere una vita. Essi sanno che farsi schiavo l'uno dell'altra è libera scelta di amore; che essere attenti al proprio amato è essere signore dell'amato stesso. Essi sanno che il loro essere coppia è segno-simbolo di un amore che, se vissuto profondamente, non può rimanere chiuso fra le mura domestiche, ma è naturalmente traboccante verso chi ha bisogno di amore. Siamo a due passi da Ravenna, dove Dante è sepolto. Tutti sappiamo che ha vissuto molto intensamente e che ha tradotto in un capolavoro la sua intensa vita. Anche Dante ha amato sua moglie, Gemma Donati, le «donne dello schermo» ed una donna sopra tutte: Beatrice. Forse nella sua vita non l'ha toccata nemmeno con un dito, ma nel pensiero l'ha desiderata, voluta, bramata. È questa donna che, nel viaggio immaginario nel Paradiso, lo porta ad elevarsi dalle passioni, dalle piccole cose. È quel corpo che, in Paradiso, gli farà cogliere la pienezza dell'amore nella contemplazione della Candida Rosa. Quando Beatrice volge lo sguardo a Cristo e Dante così la scorge, si sente come flagellato dalle ortiche, come una quercia sradicata dal vento. Tutto ciò che prima aveva amato ora lo odia; la coscienza delle sue colpe gli trafigge il cuore e cade a terra, ma dice:.. quale allora femmi salsi colei che la cagione mi porse (Par., 3 1,29). Nella Commedia, a mio avviso, nulla è paragonabile al vigore di questa scena: è il punto cruciale del poema. Qui l'eros è cresciuto e maturato oltre il suo soggettivismo per assumere la forma dell'obiettivismo sacramentale, qui, viceversa, la forma sacramentale ecclesiastica è resa nota, giustificata e credibile in quanto amore. Questa è ecclesiologia nel senso più moderno del termine. (H.U. Von Balthasar, Stili Laicali, Gloria, vol. III, Jaca Book, Milano 1976, pagg. 50-64). VISITATORI n° 42588 giorno 26/04/2010 ore 8:43 |
[ Sel'gion al savès el'vegl al podès, quanta roba se farès ]
[ Se il giovane sapesse e l'anziano potrebbe quante cose si Evi!!!!! ]
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